Questa mattina, mentre Bianca, Elisabetta e io siamo in riunione, apre la porta della stanza ed entra. “Bianca, ma chi va a prendere i bambini oggi?” Risposta interrogativa di Bianca, che guarda Simonetta, l’assistente educativa, sopraggiunta dietro di lui, per capire come mai questa domanda.
“Perché adesso la Simonetta deve andare a prendere i bambini… E allora, io intanto resto qui”. (sottinteso: con voi).
É così, Marco. 9 anni, occhi azzurri chiari e taglio corto un po’ birichino dei capelli castani, sparati in alto e rasati ai lati. Pronto a suggerire soluzioni, a gestire quel che non gli competerebbe, ma a lui pare normale. Io sorrido, ammiccando a Elisabetta. Gli voglio un bene, a Marco, immediato e spontaneo. Percepisco la sua voglia di essere, di fare, la sua impossibilità a stare fermo: mi sento investita da un’ondata di vitalità. Non puoi semplicemente dirgli di fare qualcosa: devi interloquire, chiedere, proporre una soluzione logica. Insegnare se serve. E, per lo più, non imporre. Marco ascolta attentamente e ribatte, propone. La mente aperta a considerare cose nuove, il guizzo di un’idea da realizzare che subito ti dice. Fin qui tutto bene: devi “stare sul pezzo”, sarà faticoso, ma bello.
A volte, però, Marco non ce la fa. E scatta un’ira improvvisa e quasi feroce, a volte violenta. Pianti, insulti e bestemmie, con il rifiuto di sottostare a quello che gli viene chiesto. Oppure un silenzio ostinato, corse per scappare a nascondersi mentre fa cadere tutto quello che gli capita a tiro. Lanci di oggetti a caso, calci, morsi, indistintamente a grandi e piccoli.
Marco sollecita tutte le tue risorse personali, prima che professionali. Emozioni che ti scuotono e interrogativi.
Richiedono risposte non casuali, ma logiche, rigorose e affettuose. Non serve imporre inutilmente, ma non va bene neppure ignorare i fatti gravi.
Mi capita di essere nei paraggi in queste situazioni. E nell’osservare come reagisce, mi chiedo che mostri si agitano dentro di lui. Come si deve sentire in questi momenti. Cosa chiede. Mi verrebbe l’istinto di andare da lui. Gli voglio ancora più bene, in quei momenti, me lo porterei a casa. E quando avesse finito di spaccare tutto, lo guarderei, io e lui da soli, per chiedergli “E ora? Dopo aver spaccato tutto, cosa ti resta da spaccare? Che si fa?” Non che abbia senso. Ma per essere con lui, non contro di lui.
So che professionisti attenti e preparati stanno valutando il suo caso. Non ē il mio mestiere capire di più su quel che viene deciso. Ma io spero semplicemente che non lo “certifichino”. Niente bollini. Niente alibi. Non è un malato da curare, da acquietare, ma una piccola persona da sostenere, nella sua battaglia con i mostri. Senza spegnere quella luce che gli vedo negli occhi quando ha una nuova idea, quando fa uno scherzo. Questo vorrei per Marco. A questo serve essere persone.
(ispirato da una storia vera – i nomi sono inventati)